Vacanza in Scozia per Alessandro e Daniele! Con i protagonisti de "L'Agenzia - Milano", un breve racconto erotico commissionatoci dal nostro Ko-Fi. Freddo.
Era stata la prima cosa che Alessandro Russo aveva pensato nel momento in cui lui e Daniele avevano messo piede giù dall’aereo, appena atterrato all'aeroporto di Edimburgo. Pur essendo estate, e nonostante le belle giornate e il sole che li avevano accolti, la Scozia non aveva un clima esattamente caloroso. Daniele lo aveva preso in giro, definendolo un “caliente uomo italiano”, e Alessandro aveva brontolato per metà del viaggio verso l’albergo, ribadendo la propria algida milanesità e usando termini che avevano fatto roteare gli occhi a Daniele. “Non puoi usare la parola con la T,” lo aveva interrotto il suo giovane e delizioso marito, infilandosi una delle cuffiette in un orecchio e donandogli la seconda, per ascoltare un po’ di rock insieme. Nonostante le rimostranze di Alessandro sull’uscire dall’italico suolo — non era mica poliglotta come quel mona del Vianello — la loro meritata vacanza da blatte, invasioni aliene e squarci sulla realtà iniziò bene. Quella mattina avevano diligentemente preso il bus che li avrebbe portati in una delle località più famose della Scozia, almeno a sentir dire Daniele. Il villaggio di Gretna Green era immerso nel verde e in un’atmosfera d’altri tempi davvero incredibile. “Dobbiamo andare…” Daniele spalancò la cartina che si era preparato. “Di là.” Quella vista strappò un sorriso ad Alessandro. Il suo adorato era un vero nazista in questioni di organizzazioni vacanze: visto il flop del loro viaggio di nozze, da quella volta preparava un itinerario meticoloso da seguire e frustava fortissimo Alessandro se questi non si atteneva al programma. Inoltre, se si trovavano davanti qualche strano evento che avrebbe di certo giovato della presenza di due esperti Agenti, semplicemente si girava dall’altra parte e ignorava il problema, trascinandosi via Alessandro per il polso. In questo caso poi erano pure all’estero e — Alessandro lo sapeva — Daniele aveva tutte le intenzioni di ricordargli che fuori dall’Italia non avevano alcuna giurisdizione. Il negozio del fabbro di Gretna Green si parò davanti a loro dopo qualche passo, un edificio di pietre bianche e dal tetto in ardesia con un cartello che indicava… qualcosa scritto in inglese che Alessandro non sapeva tradurre. “Sii la mia guida turistica e spiegami perché siamo qui,” gli chiese Ale, e Daniele arrossì come un ragazzino. “Questo posto è molto famoso per gli innamorati,” iniziò Dani, indicando proprio l’edificio davanti a loro. “In passato, quelli che volevano sposarsi in fretta e furia, magari contravvenendo alle leggi inglesi e ai voleri dei propri parenti, scappavano qui approfittando delle leggi indulgenti della Scozia in merito ai matrimoni.” Alessandro inclinò la testa di lato. “L’equivalente delle fuitine?” L’altro annuì, con gli occhi azzurri brillanti per l’eccitazione. “Esatto.” “Ma perché un fabbro?” Daniele gli sorrise e ad Ale quasi mancò un battito. Maledetto, gli faceva sempre lo stesso effetto. “Perché era il fabbro a officiare le nozze. Che ne dici, ti va di risposarmi?” Alessandro gli sorride caloroso. “Dolcezza, io ti sposerei anche ogni giorno, lo sai bene. Quindi, per il rinnovo dei nostri voti vuoi farti risposare da un fabbro in Scozia?” Daniele premette le labbra insieme e cercò di non incontrare il suo sguardo, ma quando poi tornò a guardarlo divenne intensamente rosso. Era adorabile. “Ah, quando mi fai quegli occhioni vuol dire che ci tieni proprio tanto. Certo, facciamolo. Lo sai che non ho bisogno di scappare in Scozia per risposarti, vero?” Daniele gli fece una linguaccia. “Ma ci siamo già. Ed è bello. E suggestivo. Siamo tanto fortunati, lo sai?” Alessandro lo prese per mano, intrecciando le dita a quelle del marito. Oh, lo sapeva eccome. Da quando lo aveva incontrato la sua vita era cambiata in più di un modo, e tutti straordinari. Era la sua gioia, la sua metà migliore, e le quisquilie di tutti i giorni non riuscivano ad adombrare in nessun modo ciò che provava per lui. Anche se Daniele brontolava sempre sui calzini appallottolati in fondo al letto e sul modo in cui Alessandro metteva i piatti nella lavastoviglie. Il feto, che prima di andare a vivere con lui abitava col papà. “Oh lo so,” rispose, baciandogli il dorso di una mano. “Devo ringraziare soltanto un paio di apocalissi per averti messo sulla mia strada.” Daniele ridacchiò. “E il Direttore Marte. Ma intendevo… pensa a queste persone che scappavano qui per sposarsi. Magari per sfuggire a unioni che non volevano.” “Magari avevano già la pagnotta in forno e non volevano svergognarsi,” ribatté Alessandro, meritabondo. Daniele gli diede una spallata dispettosa. “Non sei per niente romantico. Fammi finire. Queste persone scappavano per sposarsi. Sì, ok, magari a volte era per una questione di onore. Però altre volte no. Era amore, o desiderio o quello che vuoi tu. Non è molto diverso da come eravamo messi da noi fino a pochi anni fa. Era questo che volevo dire. Siamo fortunati a vivere adesso, perché anche se c’è tanta merda io posso sposarti, e nemmeno il papa ha nulla da dire in contrario.” Alessandro sorrise, intenerito. “Anzi, anzi.” “Quindi,” riprese Daniele, con un sospetto luccichio negli occhi. “Vuoi sposarmi, mio piratissimo?” Una sonora risata gli nacque in gola, ma Ale fu lesto a sopprimerla in favore di un lento sorriso. Baciò la punta del naso al marito. “Ovvio che sì.” Daniele sospirò tutto felice, fiondandoglisi tra le braccia. “Ti amo.” “Lo so.” “Ok, Han Solo, vediamo di fare questa cosa, allora.” La cerimonia, a dirla tutta, non era niente di che. I due intrecciarono le mani sopra Anvil, l’incudine nel negozio del fabbro, e proprio quest’ultimo celebrò la loro unione in un uno scozzese strascicato a cui Alessandro riuscì a rispondere solo perché Daniele ebbe il buon cuore di farlo prima di lui, in modo da permettergli di imitarlo. Quindici minuti e vennero indirizzati verso l’uscita, anche perché, a quanto pareva, di quei matrimoni ne celebravano una ventina al giorno. Non era stato niente di che, ma il modo in cui Daniele lo aveva guardato, il modo in cui le loro dita si erano unite sopra l’incudine, avevano colpito un po’ troppo in prima base per il pirata dell’Agenzia. Il pensiero di quando lo aveva perso la prima volta ancora lo feriva, quel ragazzo era l’aria che lo faceva respirare e il cuore che lo teneva vivo. Quando furono di nuovo sul bus per tornare in città, Alessandro gli passò un braccio sulle spalle e lo attirò a sé. Gli baciò una guancia, guadagnandosi una risatina, poi cercò di ritornare il solito guascone. “Ma, senti un po’…” “Dimmi.” Daniele gli rivolse quei suoi occhioni azzurri che lo fecero un po’ tremare. “Ma visto che ci siamo appena sposati… parliamo della notte di nozze?” Daniele quasi sputò il sorso d’acqua che aveva appena bevuto e chiuse a fatica la bottiglietta. “Sapevo che sarebbe arrivata.” *** A Edimburgo scesero dall’autobus del tour guidato e si avviarono dal parcheggio verso il centro, iniziando a farsi un’idea di dove volevano cenare. La mattina successiva sarebbero ripartiti di nuovo con i bagagli per pernottare in uno dei famosi castelli scozzesi nelle Highlands inglesi. “Tu farai la principessa da salvare e io il rude guerriero che butta giù a calci la porta della tua torre, pronto a deflorarti?” disse Ale, mentre passeggiavano di fianco alle vetrine illuminate. Daniele aggrottò le sopracciglia. “Perché devo essere io la principessa?” “Perché ta par Biancaneve,” rispose con un sorrisetto. Suo marito si bloccò in mezzo al marciapiede e lo guardò male, prima di estrarre il portafoglio dalla tasca posteriore dei jeans e prendere una moneta da un euro. Gliela mise davanti al naso. “Testa o croce. Se vinci tu stai sopra, se vinco io stai sotto.” “Sei serio?” Ale ghignò, divertito. “Adori prendere cazzi, ti stuferesti dopo dieci minuti come tutte le altre volte.” Era vero: Daniele era… come si chiamava... una pillow queen. E ad Ale fare da ricevente non faceva particolarmente impazzire, a essere onesti. “Ho un’altra idea, allora. Vieni.” Dani gli afferrò un polso e lo trascinò verso l’unico negozio che non stava chiudendo per la serata. L’insegna al neon del sex shop brillava nella penombra serale di Edimburgo. Non ebbe il tempo di lamentarsi: entrarono, salutarono il commesso — un brufoloso ragazzetto dai capelli rossicci che aveva tutta l’aria di voler essere ovunque tranne che lì — e venne trascinato alla cieca tra gli scaffali. Alessandro arrossì per il solo fatto di essere in un posto come quello. Anche se si definiva un millennial d’avanguardia, su certe cose era abbastanza all’antica e non particolarmente fantasioso. Prima di Daniele, che invece adorava esplorare cose nuove in camera da letto, Ale tendeva, almeno all’inizio, a percepire quelle novità come un attacco alla propria virilità. Pensieri stupidi, come aveva imparato nel suo tempo insieme a Daniele, ma l’abitudine era dura a morire. “Ecco cosa cercavo.” Il suono della voce del marito lo fece voltare e sussultare, perché appeso lì davanti c’era… dell’intimo femminile. Ma per uomo. “…in che senso?” Daniele tirò di nuovo fuori l’euro e glielo ficcò sotto al naso. “Testa o croce. Se vinci tu la indosso io, ma se perdi…” Un brivido gli passò per la schiena al pensiero di scopare conciato in quel modo. L’imbarazzo rischiava di mangiarselo vivo, ma Daniele era così determinato e alla fine… erano abbastanza lontani da casa. Nessuno lo avrebbe scoperto, se avesse perso. “Guarda che è solo un po’ di pizzo e di seta. Non ti mangia,” disse Daniele, con un sorrisetto. Alessandro si era lamentato del freddo, era vero. Ma improvvisamente gli era venuto da sudare come un maiale in mezzo al deserto. In parte era sorpreso della richiesta e in parte era sorpreso della propria reazione. Davvero la sua mascolinità era così fragile da non poter sopportare un paio di graziose mutandine? Daniele prese un delizioso paio di culotte color azzurro pallido e le srotolò con aria saputa, soppesandone il taglio e i materiali. A lui sarebbero state da Dio, Alessandro ne era sicuro. Daniele era più sottile di lui, con un fisico delicato e liscio, senza cicatrici antiestetiche e altre imperfezioni. Il solo pensiero era sufficiente a dargli una gradevole scarica di eccitazione lungo la schiena e contro la zip dei calzoni, improvvisamente un po’ troppo stretta. E se invece pensava allo scenario inverso… Daniele era sempre più che disposto a ricordargli quanto lo trovasse attraente, sexy e perfetto, nonostante tutti i suoi difetti. Alessandro aveva una grande fiducia nelle proprie doti seduttive e l’aveva dimostrato seducendo Daniele in ben poco tempo dopo il loro primo incontro. Tuttavia, sapeva perfettamente di non essere più giovane o integro. A parte l’occhio mancante, che era un capitolo di infamia di cui non desiderava discutere, aveva altre grosse cicatrici sul torace e su una spalla e una pancetta testarda e seccante che non voleva saperne di andar via. “Se non proprio ti mette a disagio non fa niente,” aggiunse Daniele dopo un po’, mettendo via le mutandine quasi con rimpianto. “Beh, non abbiamo ancora tirato la moneta,” bofonchiò Alessandro. “Magari le devi mettere tu.” Daniele ridacchiò, esasperato. “Fai tanto il moderno, poi ti afferri la collana di perle per così poco. Se l’avessi saputo avrei preso una moneta truccata. Tieni. Tirala e vediamo cosa succede.” Alessandro prese la moneta da un euro e innalzò una fervida preghiera. Quella vacanza doveva essere perfetta, non il momento per avere una crisi di identità o, molto peggio, un litigio coniugale. Voleva soltanto andare in giro e vedere posti carini, mangiare cose che gli avrebbero dato il reflusso e fare l’amore con suo marito tutte le volte che ne aveva voglia. Ed era molto spesso. Due secondi dopo, il lancio della moneta era terminato e Alessandro aveva perso. Ovviamente. Daniele si avventò sullo stand e iniziò a selezionare ogni tipo di lingerie nella sua taglia, dalle mutandine bianche più caste e virginali a terrificanti tanga pieni di lustrini. Alessandro non ci provò neanche a fargli cambiare idea, ormai era del tutto fregato. Era sopravvissuto a un paio di apocalissi, in qualche modo ce l’avrebbe fatta anche ad affrontare pizzi e merletti. Forse. Dopo gli acquisti andarono a cena in un posto dove proiettavano una partita di rugby e servivano settecento tipi diversi di ottima birra, e finalmente il Piratissimo riuscì a rilassarsi un po’. Non provava tutta quell’agitazione dalla volta in cui quel cretino di Flavio Rossi, il suo ex prima di Daniele, l’aveva lasciato perché ‘Alessà, non me regge proprio a vederti così’ subito dopo l’incidente della cassetta postale mannara che gli aveva mangiato un occhio. La serata passò tranquilla, serena. A un occhio esterno poteva sembrare che andasse tutto benissimo tra di loro, ma la realtà era un’altra. C’era un grosso elefante in mezzo alla stanza ed era contenuto in una piccola borsa di carta appesa alla sedia su cui era seduto Daniele, tutto intento a mangiarsi il suo fish and chips senza un solo pensiero al mondo. Quando tornarono in albergo, Daniele soppesò il sacchetto con aria critica e lo guardò dritto in faccia. “Vuoi farlo stasera o domani?” “In che senso?” “Lo vedo che sei agitato. Posso aspettare domani, quando alloggeremo nel castello.” Alessandro deglutì nervosamente, indeciso. L’istinto gli diceva di prendere tempo, con un po’ di fortuna il tour dei castelli del giorno dopo avrebbe stancato abbastanza il marito da fargliene dimenticare. Oppure poteva semplicemente opporsi, sopportare un po’ di muso del consorte e andarsene con la dignità intatta. Daniele sbuffò e tirò fuori la lingerie dal sacchetto. “Ti sento pensare, Capitan Harlock. Non stare a farti problemi, me la metto io.” E senza aggiungere altro, iniziò a spogliarsi, un capo di abbigliamento dopo l’altro finché non rimase completamente nudo davanti a lui. Tirò fuori gli slip di pizzo e borbottò: “Mi andranno enormi.” “Aspetta,” disse d’istinto, chiudendo una mano sulle mutandine in cui Daniele era già pronto a infilarsi senza problemi. Deglutì, nervoso. L’altro non aveva alcun problema a farlo per lui. Sapeva che non era nemmeno scazzato o spazientito, voleva davvero toglierlo dall’imbarazzo, ma non era giusto nei confronti di entrambi. “Lo faccio. Fammi svestire.” “Oh.” Ignorò la faccia stupita di Daniele e si tolse tutti gli abiti, finalmente nudo a sua volta. Infine prese l’intimo e decise di chiudersi nel bagno della loro stanza, per patire in solitudine quella sciarada. Si infilò prima le mutandine, nere, stranamente comode nonostante lo terrorizzassero. Poi c’era una specie di reggiseno morbido dello stesso colore, ma quando lo indossò scoprì che si adattava abbastanza bene ai suoi pettorali, che non somigliavano certo ai seni di una donna. Infine c’erano le calze, un paio di autoreggenti nere, che riuscì a infilare saltellando su un piede e senza mai incrociare lo sguardo con se stesso nello specchio. Non si era neanche guardato e già si sentiva ridicolo oltre ogni possibilità. Se non fosse stato per il fatto che amava Daniele disperatamente, si sarebbe già tolto quella roba e sarebbe andato a piegare suo marito a 90 sulla scrivania della stanza d'albergo. Eppure non era mai stato insicuro sulla propria mascolinità. Perché si sentiva così agitato? Minacciato, persino. Come se quei pezzetti di stoffa potessero renderlo meno virile quando di fatto non facevano altro che sottolineare come il suo corpo fosse quello di un uomo, per contrasto. Tirò un respiro e squadrò le spalle per poi tornare in camera da letto. Cercò di drappeggiarsi tutto sexy sullo stipite della porta. “Che ti pare?” Si aspettava di essere preso per il culo e non in modo divertente. O che Daniele scoppiasse a ridere come un matto, soddisfatto per l’esperimento ma non molto contento del risultato. Invece suo marito si tirò su per appoggiarsi a un gomito e spalancò quegli occhi azzurrissimi, passandosi la punta della lingua sulle labbra rosa. Un rossore profondo gli aveva colorato le guance e i suoi occhi si erano fatti lucidi e languidi. Si tirò a sedere più dritto e Alessandro notò che aveva un’erezione da manuale, bella piena e tesa e un po’ bagnata in punta. Era bellissimo. “Ti sei guardato, Ale? S-sei… Oh, Dio, sei così pirata.” Alessandro non riuscì a trattenere una risata sorpresa. “Pirata? Vestito così? Sarebbe un complimento?” Daniele si ributtò steso sul letto, una mano già tesa per accarezzarsi il ventre e le cosce e stringersi intorno al suo cazzo. “Lo è, stupido! Sei forte e bello e sexy e vestito così sei ancora più piratissimo. Tutta la tua forza sotto un po’ di lingerie impalpabile. Ho voglia di… vieni qua, Ale, devo divorarti.” Beh, chi era lui per opporsi. Si avvicinò al letto sempre senza avere il coraggio di guardarsi in qualsiasi superficie riflettente. Daniele riuscì a mettersi seduto sul bordo del letto e aprì le gambe per fargli spazio, poi gli strinse le dita sui fianchi e prese a baciarlo e leccarlo da sopra il tessuto delle mutandine. Alessandro non era stato interessato alla cosa fino a quel momento, anche se la vista del marito in quelle condizioni lo eccitava sempre. Ma al primo contatto della bocca morbida e calda di Daniele si indurì subito, riempiendo fin troppo il sottile indumento che ora faceva da impalpabile costrizione al suo vigore. “Non capisco perché ti piace così tanto,” borbottò, tra un gemito e l’altro. Daniele gli aveva abbassato gli slip e aveva iniziato a succhiare con foga. Si separò dalla punta del suo uccello con un pop! bagnato e si leccò le labbra rosse. “Te l’ho già spiegato, stammi sul pezzo.” Sì, glielo aveva già spiegato e Ale non capiva. “Non c’è niente di sexy in me conciato così.” Non riusciva a vedere altro che il proprio corpo imperfetto incartato in una confezione troppo carina per lui. Non era scomodo o altro, non era nemmeno più una questione di virilità a quel punto. Daniele gli strinse il cazzo con una mano e lo fissò in volto. “Togliti la benda.” Oh no, cazzo, non di nuovo. “Dani, non…” “Toglila. Adesso. O non ti faccio venire.” Con un gemito, Alessandro obbedì e si sfilò la benda che normalmente gli copriva l’occhio offeso, nascondendo la ragnatela di cicatrici lì sotto. Era orrendo, ma a quanto pareva a Daniele importava poco. “Ok.” Il marito annuì, già con il lubrificante in mano. Se ne premette un po’ sulle dita e iniziò a prepararsi in fretta e furia sotto il suo sguardo rapace. Quando fu pronto, versò ancora un po’ di liquido sull’erezione di Alessandro e infine si posizionò sopra di lui. “Adesso mi stai a sentire, ok?” Dani gli piazzò entrambe le mani sul petto, proprio sopra la bralette, e Ale gli strinse d’istinto i fianchi mentre l’altro si calava sul suo uccello senza un solo pensiero al mondo. “Sono qui in Scozia con te. Ti ho fatto rinnovare i voti di matrimonio. Ti sto scopando. E ti amo, Ale. Non perché sei piratissimo, ma perché sei tu.” Alessandro deglutì, con il cervello già in pappa perché il calore del corpo del compagno lo stava lentamente uccidendo. “Lo so.” “Ti amerei in qualsiasi condizione. Qualunque abito tu indossi. Con o senza benda.” Daniele passò la punta delle dita sulle cicatrici che gli attraversavano la spalla sinistra e il pettorale. “Non è il tuo fisico ad attrarmi, né la lunghezza del tuo cazzo, anche se sono ottimi bonus. Amo te, Alessandro Russo. E la lingerie da donna ti sta dannatamente bene.” “Ma… non capisco…” ringhiò Alessandro. Il calore di Daniele era incredibile e il suo corpo era forte e nervoso oltre che bellissimo. Il rossore si era sparso sulla sua gola e sul suo petto e il modo in cui teneva la bocca un po’ aperta mentre si muoveva su di lui era meglio di qualsiasi parola. Ma Alessandro non riusciva a rassegnarsi. Non capiva e forse non avrebbe mai capito, proprio come quando Daniele insisteva per vedere i danni provocati da quella dannata cassetta postale e toccare una a una le sue cicatrici. Le vedeva soltanto brutte, persino disgustose. Così come trovava abbastanza ridicolo il proprio corpo di quasi quarantenne con tutte le sue magagne e imperfezioni addobbato come una sposa alla prima notte di nozze. Daniele sospirò e si lasciò sfuggire un piccolo lamento mentre si sistemava su di lui e iniziava a muoversi, dondolando le anche. In sé era un regalo, perché Daniele era di una pigrizia imbarazzante a letto, e adorava abbandonarsi alla mercé di Alessandro. Il fatto che fosse sopra, impegnato a usare la forza delle cosce e del ventre per muoversi su di lui, era già incredibile di suo. “I corpi sono- ah- corpi, Ale. Ognuno è diverso, ognuno è bello. Tu sei bello come, c-come sei. Con le cicatrici, con i difetti. Ti amo così come sei perché sei la persona più importante per me. E la biancheria da donna è solo quello che è, è semplicemente una cosa carina messa su qualcosa di bellissimo. Ora p-posso smettere di p-parlare?” ansimò il ragazzo, premendosi contro di lui. Alessandro ridacchiò, incerto, e allungò istintivamente una mano per recuperare la benda. Se la rimise senza aspettare alcun commento da parte del marito — d’altra parte Daniele sapeva benissimo che odiava mostrare quel disastro almeno quanto non gli importava di esibire le altre cicatrici. Non aveva intenzione di procurarsi un occhio prostetico — Dio che orrore — e la palpebra incavata e solcata di cicatrici non era bella da vedere. Non la voleva vedere. Gli ricordava un fallimento che non era stato neanche eroico, non era un’avventura da raccontare o di cui vantarsi. “Sì, puoi smettere,” concesse. Piegò le gambe e puntò i piedi sul materasso per offrire maggiore supporto a Daniele, che invece si appoggiò indietro sulle braccia. Il leggero cambio di posizione sortì un effetto straordinario in Dani, che si lasciò sfuggire un gemito più forte. Alessandro ghignò. Funzionava ogni singola volta. Spense il cervello e si concentrò sul resto. Stava fottendo la creatura più bella del creato, in un posto magico e bellissimo. Il giorno dopo avrebbe visto castelli e verdi colline, mano nella mano con suo marito. Marito che in quel momento stava singhiozzando per la forza con cui i loro corpi impattavano con schiocchi sonori. Pelle contro pelle. Pizzo contro pelle. Il rossore sulle pelle bianca di Daniele, le sue leggere lentiggini, il sudore che li ricopriva come un velo. Nella testa di Alessandro tutto andò di nuovo al posto giusto, perché era nel posto giusto e con la persona giusta. La lingerie aveva perso di importanza. “Vorrei c-che potessi vederti come ti vedo io,” ansimò Daniele, dopo un guaito particolarmente potente in seguito a una spinta. “Mi p-piaci così tanto.” Il cuore di Alessandro quasi scoppiò per l’emozione. Probabilmente non sarebbe mai riuscito a levarsi di dosso quella sensazione strisciante di essere un fallimento, ma poteva essere quello che Daniele voleva. Così lo afferrò per i fianchi e lo ribaltò sulla schiena. Si godette l’espressione sconvolta del marito a quella dimostrazione di forza, ma se c’era qualcosa in cui era bravo era sembrare grande, grosso e intimidatorio. E piaceva a Daniele, se il guizzo eccitato del suo cazzo era un’indicazione. “Scopami,” gemette quel maledetto, con le labbra rosse per il bacio bruciante e devastate che si era chinato a strappargli. “Oh, Ale…” “Certo che ti scopo,” ghignò, chinandosi sopra di lui. Gli morse la giuntura tra il collo e la clavicola, lasciando il segno dei propri denti. Daniele gli piantò le unghie nella schiena, il giorno dopo avrebbe avuto un ricordino. “La prossima volta però questa roba te la metti tu.” Daniele trovò il tempo di sorridere tra una spinta e l’altra, mentre una mano era scesa a stringersi l’erezione tra le dita. “Tutto quello che vuoi.” Bastava davvero poco per rimettere l’universo in ordine. Gli universi. Tutte le realtà possibili e impossibili o anche solo vagamente immaginabili. In ognuna di quelle, ogni Alessandro Russo che aveva trovato il suo Daniele Baroni era il bastardo più fortunato di tutti. Alessandro si chinò a baciarlo con foga, portandolo oltre il limite con una spinta ben assestata. Daniele si inarcò tutto, stringendosi intorno a lui e Alessandro si lasciò andare a sua volta con un ultimo paio di spinte, prima di crollargli addosso ansimando. Daniele gli strisciò la punta fredda del naso contro la guancia. “Sei pesante, uomo.” Alessandro mugugnò un versaccio in risposta e si stese di lato quanto bastava per togliere il grosso del peso dal più esile marito, che si spalmò subito contro il suo torace, strofinando il viso come un gattino. “Poi non dire che non ti ho mostrato il Mostro di Loch Ness, eh,” borbottò Alessandro dopo un po’. “Sei un deficiente.” “Mi ami per questo, no? Mi hai pure sposato. Due volte.” Daniele rise contro la sua pelle, stanco ma divertito. “Posso anche tornare dal fabbro e fargli cancellare il rito, eh.” Alessandro gli cinse il corpo con le braccia forti, schiacciandolo contro di sé e assicurandosi che non potesse muoversi con una grossa mano su ognuna delle sue natiche. “Non ci penso proprio. Domani abbiamo la visita ai castelli. Ci portano a Glamis, lo sai che a Glamis pare ci sia il fantasma di uno che ha fatto un patto col diavolo ed è ancora lì a giocare a carte con lui? E poi c’è anche Tantallon Castle e la torre di Braveheart e…” “Qualcuno ha fatto i compiti, eh?” rispose Daniele compiaciuto. Alessandro gli baciò la fronte, poi le mani. “Non so l’inglese ma gugol lo so usare, eh.” “Ma bravo il mio pirata. Ora baciami e poi portami a fare un bagno caldo. Domani ci sarà parecchio da camminare.” Alessandro si affrettò a obbedire e ne approfittò per scalciare via la lingerie che tanto lo aveva messo a disagio. Era sicuro che sarebbe stata molto meglio su Daniele e non aveva fretta di ripetere l’esperimento, ma il modo in cui suo marito l’aveva guardato aveva scaldato parti del suo cuore che non sapeva neanche di avere. A prescindere da tutto, era bello sentirsi amati e apprezzati, soprattutto da qualcuno che aveva giurato di passare tutta la vita insieme con lui. Alessandro sorrise, baciò i capelli sudati di Daniele e tirò un sospiro. Non vedeva l’ora di proseguire la loro vacanza scozzese. Insieme. FINE
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La prima notte di nozze tra Scott e Jesse. Con i protagonisti de "La Scommessa", un breve racconto erotico commissionatoci dal nostro Ko-Fi. Quando Scott era finito di proposito addosso a Jesse Mercer quella prima sera alla festa di Kayla, l’ultima cosa che si sarebbe immaginato era che il daddy ricco e tatuato a cui aveva succhiato il cazzo sarebbe diventato suo marito, due anni più tardi.
Con ogni probabilità, se avesse avuto modo di incontrare il sé del passato e dirglielo, come minimo si sarebbe riso in faccia da solo. E invece eccolo lì, un fascio di nervi che si guardava allo specchio, vestito con un perfetto completo tre pezzi bianco e il gilet argentato. “Stai benissimo,” disse Lance al suo fianco, tutto affaccendato a sistemargli il nodo Windsor della cravatta e un paio di riccioli neri ribelli. “Non azzardarti a metterti a piangere adesso.” Scott lo guardò nel riflesso e si morse il labbro inferiore per trattenere a stento il tremito. “Non lo faccio solo perché poi ti metti a piangere pure tu.” “Non possiamo piangere al tuo matrimonio, Scotty! È un’occasione felice” “Lo so bene,” rispose, lisciando il tessuto della giacca con una mano. “Sono così felice che potrei piangere per ore. Non è assurdo?” Lance gli strinse con affetto una spalla. “Assolutamente no. È bello vederti così.” Scott gli si lanciò tra le braccia per farsi stringere. Era ridicolo, ma era così emozionato da avere seri problemi a non scoppiare in lacrime. Era così felice da non riuscire a processare l’informazione correttamente. Si stava davvero sposando a ventitré anni? D’altra parte i due anni che erano appena trascorsi avevano portato enormi cambiamenti nella sua vita e in quella di Lance. Entrambi erano passati dall’essere ragazzini ricchi e viziati a uomini giovani con brillanti prospettive per l’avvenire. Dopo la sua sfortunata parentesi di relativa povertà, Scott era tornato a studiare e si era laureato velocemente e bene solo pochi mesi prima. Aveva raffinato il suo progetto di creare una catena di ristoranti e caffetterie sostenibili ed etiche e aveva aperto i primi due locali a New York. Inoltre collaborava con lo staff di Jesse per la gestione del ranch e delle aziende collegate. In un anno aveva presenziato a più consigli di amministrazione di quanto avesse mai fatto il suo futuro marito da che aveva ereditato tutto quel ben di Dio. “Dai su,” disse Lance, rimettendolo in piedi e lisciandogli il completo addosso. Se possibile era diventato ancora più alto, grosso e sexy. Il suo tira e molla con Kayla Sutherland era ormai argomento comune sulle pagine di tutti i tabloid, che adoravano paparazzarli all’uscita di un teatro o di un ristorante e persino seguirli se andavano in vacanza da qualche parte. Kayla si divertiva un mondo e Lance, vanitoso com’era, non era precisamente da meno. Anzi, i due avevano intenzione di organizzare un matrimonio ‘segreto’ e poi invitare soltanto pochi giornalisti ben selezionati. Avrebbero senza dubbio generato un hype pazzesco. Scott aveva preferito qualcosa di più raccolto, anche se non si poteva dire che fosse sobrio. Avevano trovato un posto che in origine era un vivaio, tutto serre del secolo prima amorevolmente ristrutturate, padiglioni pittoreschi e giardini inglesi dall’aria fiabesca. Il tema era tutto opera di Scott, con decorazioni a forma di luna e stelle e l’aria di ritrovarsi tra le fate. Ci aveva messo una vita, ma era stato anche un modo per distanziarsi dal mondo di lustrini da cui proveniva. In un certo senso, con quella tematica naturale si era voluto avvicinare a Jesse. Tirò un ultimo sospiro e decise che era pronto. “Ok. Ok, andiamo.” Lance gli fece un mezzo inchino scherzoso. “Dopo di te, principessa.” “Non chiamarmi così.” “Giusto, è Jesse quello che può farlo,” ghignò l’altro e Scott roteò gli occhi al soffitto, non prima di essere arrossito come un peperone. Quello che faceva in camera da letto con Jessie non era affare di Lance da un bel pezzo, ormai. Li aspettavano tutti nel giardino, seduti in modo ordinato di fronte l’arco bianco e decorato da eleganti rose inglesi. Da una parte c’erano gli amici e gli zii di Jesse, riconobbe anche un paio di suoi colleghi di lavoro. Dall’altra parte c’erano invece i parenti e gli amici di Scott, con suo padre tutto in ghingheri e sua madre che per una volta aveva abbandonato l’aria glaciale ed era diventata un tutt’uno lacrimoso con il suo fazzoletto di stoffa. Scott si sentiva i palmi delle mani sudati, nonostante quella più grande e calda di Lance fosse alla base della sua schiena e lo spingesse in avanti con delicatezza. Perché in mezzo a quel corridoio di persone… c’era Jesse, vicino al prete. Tutto il nervosismo lo abbandonò di colpo, sostituito da una forte emozione che non sapeva districare dal groppo in gola. Jesse era magnifico, come sempre. Anche lui vestito di bianco, ma con una bolo tie fermata da una testa di bufalo d’argento che già a distanza gli faceva venire voglia di scoppiare a ridere. Garantito che ai piedi aveva stivali da cowboy bianchi. Percorse la distanza tra loro come su una nuvola guidata da Lance verso il suo sposo che gli sorrideva e gli tendeva la mano, ma apparentemente pure lui non era messo tanto meglio a stato emotivo. Cristo, era così bello sorridersi come due stupidi innamorati. Lance si allontanò per prendere posto come testimone, contrapposto a Kayla, e Scott lasciò che Jesse afferrasse la sua mano con la propria — grande e calda — e lo aiutasse a fare i due gradini di legno che li separavano. “Siamo pronti, dunque?” sorrise il prete, guardando verso entrambi. Scott alzò lo sguardo per incontrare quello di Jesse. Era così caldo e innamorato che nemmeno quella stupida testa di bufalo potè impedirgli di arrossire dalla testa ai piedi e sentirsi gli occhi di nuovo pieni di lacrime. Era buffo. Era un ragazzo viziato cresciuto nel privilegio e nella mancanza di responsabilità; era molto maturato negli ultimi anni, ma restava un giovane privilegiato, certo molto più idealista di due anni prima, ma pur sempre abituato ad avere tutto nella vita. Eppure, quel calore intenso e dolcissimo che rischiava di struggergli il cuore e chiudergli la gola proprio al momento dei voti nuziali non l’aveva mai provato prima. Nessuna auto di lusso, nessun abito firmato, nessuna scuola prestigiosa o fondo fiduciario aveva mai avuto il potere di farlo tremare in quel modo. Chi diceva che i soldi non facessero la felicità mentiva — ovviamente — perché senza soldi era molto difficile anche soltanto ipotizzare la felicità. Scott lo sapeva molto bene. I mesi in cui aveva lavorato doppi turni per raggranellare pochi spicci e aveva diviso un appartamento cadente con cinque persone gli ricordavano quanto fosse importante costruire qualcosa di solito, duraturo e redditizio. E quanto fosse bello avere la possibilità di aiutare altri che non avevano una comoda rete di sicurezza su cui ricadere, che non potevano neanche aspirare a un centesimo degli agi di cui lui poteva circondarsi. Eppure, la promessa negli occhi di Jesse era così evidente, così aperta e sincera da togliergli il respiro più di ogni altra argomentazione razionale. “S-sì. Non sono mai stato così pronto,” mormorò Scott, con un piccolo sorriso. *** La cerimonia era stata bellissima. Alla fine tutti i parenti di Scott piangevano disperatamente e suo padre aveva un luccichio sospetto negli occhi. I suoi fratelli maggiori erano arrivati da ogni angolo degli Stati Uniti e sua sorella si era scomodata con tutta la famiglia, comprensiva di gemelli di due anni e un corgi, per venire alla cerimonia dal Regno Unito. Il ricevimento successivo alla celebrazione forse era meno formale di quanto tutti i parenti di Scott avessero immaginato. A dire il vero sembrava più il ballo in un fienile, per quanto in un luogo molto più elegante. Ma scorrevano anche fiumi di alcol e dopo qualche minuto di perplessità la mamma di Scott si ritrovò a ballare con Jesse su musiche country che Scott avrebbe odiato in qualsiasi altro momento della propria vita, mentre Lance cercava di spingere Kayla dietro un cespuglio e infilarle una mano sotto il vestito. Sempre i soliti. “Sei splendido,” gli sorrise Jesse, facendogli fare una piroetta e danzando come se niente fosse su quei terribili stivali da cowboy bianchi. “Stanco?” Scott scosse la testa e gli angoli della bocca gli si arricciarono in un sorrisino malvagio. “Un po’, ma non abbastanza da farmi desistere dal pensiero di quello che ci aspetta dopo.” La presa di Jesse sui suoi fianchi si fece più salda e quasi gli fece mancare il fiato, visto quello che portava sotto gli strati di abiti. Una piccola sorpresa per la serata. “Mmmh… sarei quasi tentato di mollare qui tutti e portarti in camera da letto.” “Caro il mio cowboy, la ragione mi dice di aspettare ancora un po’, ma il mio cazzo non si succhia da solo e ho tanta voglia di averti solo per me,” gli ghignò in risposta. Forse nessuno dei due era una cima in esternazioni romantiche, anzi, erano più le uscite laide che altro. Però il modo in cui Jesse lo guardò, quel misto tra il ti amo più della mia stessa vita e il voglio scoparti qui in mezzo alla pista da ballo, valeva più di tanti discorsi melensi e dichiarazioni d’amore. Jesse riuscì, in modo molto eroico a dire il vero, a finire almeno la canzone sulla quale stavano ballando, prima di trascinarlo fuori dalla pista e poi dentro casa. La casa di Jesse era enorme e difficilmente gli ospiti avrebbero smesso di divertirsi, mentre loro salivano i gradini che li avrebbe portati nella loro camera da letto. Si baciarono per tutto il tragitto e a Scott iniziava a mancare un po’ il fiato, non solo per l’eccitazione. Suo marito si tolse la giacca e la bolo tie, scalciando poi gli stivali. Si tirò su le maniche della camicia — Scott si morse un labbro a quel gesto — e rimase a osservarlo mentre lui stesso si levava i vestiti. Prima la giacca, poi le scarpe. Slacciò i calzoni, permettendo che il pizzo bianco delle mutandine da donna che indossava spuntasse per lasciar intendere una deliziosa promessa. Infine la parte più difficile, la camicia. “Tutto bene? Ti vedo pensieroso,” gli chiese Jesse, inclinando la testa di lato. Alcune ciocche di capelli castani sfuggite dal manbun gli circondavano il viso, rendendolo se possibile ancora più affascinante. “Se sei stanco possiamo anche rimandare a domani.” Scott scosse la testa e scoppiò in una risatina che gli fece mancare il fiato. “Non è per questo. Solo… guarda, ho una cosa per te.” Aprì i lembi della camicia e, mentre se la sfilava, vide le pupille negli occhi di Jesse dilatarsi per l’eccitazione. Il corsetto bianco perla, quasi virginale che aveva scelto per quel giorno speciale, gli stringeva la parte superiore del corpo in una morsa tenace, ma senza essere scomodo. Anzi, in realtà non si era nemmeno accorto di averlo indosso per la maggior parte del pomeriggio. L’orlo superiore del corsetto arrivava a malapena ai capezzoli, lasciandoli appena scoperti a strofinarsi contro il tessuto. Il contrasto migliore però erano le due barrette dorate che li foravano entrambi, un regalo che si era fatto sei mesi prima e che ci aveva messo un sacco a guarire. “Ti piace?” gli domandò, mentre si abbassava i pantaloni e li scalciava via per rimanere in mutandine, il cui decoro richiamava lo stesso del corsetto, insieme al reggicalze che teneva in precario equilibrio un paio di calze vintage senza elastico, anch’esse bianche. “Mio Dio, Scotty, come sono felice di aver ascoltato Kayla quella volta e di essere andato a quella stupida festa,” disse Jesse. Scott si lasciò avvolgere dal suo sguardo caldo, offrendo ogni dettaglio al suo scrutinio. “E io devo ringraziare Lance, a quanto pare. Ma perché non facciamo che tu ringrazi me e io ringrazio te?” disse il ragazzo, sedendosi sensuale sul bordo del letto. Jesse fu lesto a raggiungerlo e a inginocchiarsi ai suoi piedi. Gli prese le mani e gliele baciò con dolcezza, sfiorandogli i polsi con le labbra. Il più delle volte qualsiasi tentativo di romanticismo finiva dove iniziava la libido insaziabile di entrambi, e a giudicare da come si erano divorati fino a poco prima anche questo sarebbe stato il caso. Ma quel gesto così tenero ebbe il potere di commuovere Scott, che liberò una mano per passarla nei capelli dell’altro, impegnato a riempirgli di baci l’interno delle cosce. “Sei bellissimo,” mormorò Jesse tra le sue gambe. “Sei bellissimo con un completo firmato, sei bellissimo così, sei bellissimo senza niente indosso se non le mie mani.” “Se mi fai piangere durante la mia prima notte di nozze giuro che ti ammazzo,” rispose Scott. Gli tremava la voce e voleva evitare con tutto se stesso di commuoversi di nuovo. Non era mai stato facile alle lacrime, non aveva intenzione di iniziare adesso. Jesse ridacchiò contro la sua pelle e gli assestò un morso per vendetta. “Oh, fidati, piangerai prima della fine della serata,” disse l’uomo, con il suo solito tono spavaldo. Scott roteò gli occhi al cielo e sollevò una gamba per appoggiarla alla spalla solida dell’altro. “Come ho già detto prima, il mio cazzo non si succhia da solo.” “Romantico,” bofonchiò Jesse, poi finalmente smise di parlare e si mise al lavoro. Se c’era una cosa che Scott adorava era quando Jesse si metteva in testa di farlo impazzire con le mani o con la lingua attraverso qualche sottile strato di stoffa. Era ciò che intendeva fare in quel momento, era chiaro. L’uomo era incastrato tra le sue gambe e gli stringeva possessivo le cosce bianche, occupatissimo a leccare la sua erezione attraverso il pizzo bianco di quelle virginali mutandine. Le quali, per inciso, non facevano nulla per essere comode o contenere la sua erezione. Era una cosa che gli piaceva, lo deliziava sentirle sfregarsi contro di lui dentro i pantaloni. Si sentiva sexy e carino. Per Jesse però a quanto pareva era magnifico, perché finì di giocare con il pizzo per tirare l’elastico sotto le palle di Scott e succhiarlo sul serio. Se tanto gli dava tanto, non si sarebbe nemmeno premurato di levargli l’intimo o il corsetto, prima di passare alle cose serie. Prima che Jesse vincesse la loro scommessa guadagnandosi l’onore e l’onere di avere il culo di Scott, per mesi interi erano andati avanti solo a sesso non penetrativo. E Jesse era un uomo che quando si metteva in testa di ottenere qualcosa, lo faceva con lo stesso ottimismo di un panzer da guerra nel pieno di una battaglia. Scott si inarcò sul materasso, stringendo le dita tra le ciocche di capelli del marito — marito, che parola strana per lo Scott del passato — e lasciandosi andare sotto di lui. Jesse abbandonò la sua erezione per infilare un dito nelle mutandine ed esporre la sua apertura, leccandola con un colpo di lingua. Rabbrividì di puro piacere. Se c’era un passatempo preferito di Jesse Mercer, quello era mangiargli il culo e insomma, chi era lui per dire di no a cento chili di muscoli sotto forma di un daddy tatuato tutto intento a prepararlo per la loro notte di nozze? La parte che lo faceva ammattire era anche il lieve bruciore lasciato tra le cosce dal ripetuto passaggio della barba del consorte, che gli stava arrossando la pelle delicata. “Se non mi scopi giuro che… che…” Jesse ridacchiò, con ancora la lingua infilata nel suo culo. Il gesto riverberò dentro Scotty, facendolo sobbalzare piacevolmente. Si staccò da lui e si passò una manata sulla faccia. “Tu cosa, dolcezza?” gli sorrise il bastardo. “Lo sappiamo entrambi cosa ti piace. E io te lo darò.” Scott si morse il labbro con forza e fissò il compagno. “Fila a lavarti quella bocca e poi torna qui subito”. Jesse non se lo fece dire due volte. Scattò su come una molla e corse a lavarsi faccia e bocca. Di lì a due minuti era di nuovo su di lui, tra le sue braccia e decisamente troppo vestito. “Non mi piacciono questi vestiti,” mugugnò Scott. Aveva infilato le dita tra i bottoni della camicia di Jesse e ne tirava l’orlo senza alcun effetto pratico. Jesse, impegnato a disegnare un perfetto succhiotto viola in mezzo al suo sterno, ignorò le sue proteste. “Ho detto che non mi piacciono i tuoi vestiti,” ripetè Scott, petulante. “Avevamo un piano qui, e questo piano prevede che mi scopi. E non puoi farlo vestito.” “A tempo debito,” rispose Jesse, divertito. Scott si inarcò tutto sotto di lui, premendosi contro la sua erezione ancora coperta dai pantaloni. L’infame adorava il contrasto tra la pelle nuda di Scott e la grana dei propri abiti e Scott — beh, Scott ovviamente sapeva benissimo come sfruttare a piacimento quel kink. Ma in quel momento desiderava una sola cosa, avere suo marito tra le braccia senza quella stupida camicia e quelle stupide braghe. “Devo fare tutto io qua,” borbottò Scott, affaccendandosi per slacciargli ogni bottone a disposizione. Jesse gli rendeva la cosa ancora più difficile del previsto, perché aveva iniziato a tormentare prima l’uno e poi l’altro dei suoi piercing. Jesse era impazzito quando Scott aveva deciso finalmente di farli, e a dirla tutta era stato anche immensamente paziente durante la lunga guarigione, quindi adesso Scott era più che felice di ricompensarlo. “Tutto tu?” rise l’altro. Si tirò su e si sfilò la camicia, mostrando il petto abbronzato e le braccia forti, le spalle ben tornite. Scott si inarcò di nuovo. Cristo, quanto lo amava. “Non mi risulta.” Con una sola manata Jesse lo ribaltò sul letto, le mani strette sul piccolo culo bianco di Scott, e si chinò a baciarlo come se volesse divorarlo. “Guarda che avere questo aspetto è un lavoro a tempo pieno e ne ho già uno vero,” bofonchiò Scott, sotto l’assalto dell’altro che lo riempiva di baci e di morsi e lo graffiava ovunque con la barba ruvida. Jesse ridacchiò ma non gli rispose, concentrandosi piuttosto a continuare con le dita il lavoro che aveva iniziato con la lingua. Scott perse temporaneamente la parola mentre si spingeva avido contro le sue dita. Il fatto che i piercing strusciassero contro il tessuto delle lenzuola non aiutava proprio per niente, per cui si ritrovò imprigionato in un loop di piacere dove si spingeva contro le grosse dita di Jesse e poi contro il materasso. “Cristo, dovresti vederti” mormorò il suo novello sposo alle sue spalle. “Non riusciresti a sembrare vergine nemmeno vestito da suora.” Scott ridacchiò, senza fiato. “Vuoi che mi metta un costume da suora sexy?” “Ecco, appunto.” “Invece di dire sciocchezze, dammi il tuo cazzo,” disse ancora Scott. Stava piagnucolando e non lo avrebbe ammesso nemmeno sotto tortura. Per tutta risposta, Jesse sfilò le dita dal suo corpo e si allungò verso il comodino, dove il tubetto del lubrificante stava in bella vista a portata di mano. Poi gli schiaffeggiò una natica, che divenne subito rossa in contrasto col bianco delle mutandine. “Sta’ bravo, ho detto. La saliva non è un lubrificante sufficiente.” Avrebbe voluto rispondergli che non gliene fregava un cazzo, ma Jesse era ferreo su certi argomenti, per cui si morse il labbro e annuì. Un fruscio alle sue spalle gli segnalò anche che finalmente il suo sposo si era deciso a levarsi almeno la camicia, ma non i pantaloni. “Dai, Jessie… ti voglio nudo.” L’altro gli strappò un singulto, infilandogli dentro due dita ben lubrificate e iniziando a fare sul serio. “E io voglio godermi lo spettacolo, tesoro.” Scott non riuscì più a rispondere e si limitò a sospirare tra le lenzuola cercandone un angolo ancora fresco su cui strusciare il viso. Le barrette ai suoi capezzoli sfregavano contro le lenzuola a ogni movimento e ogni volta che si ritraeva dall’essersi spinto contro le dita di Jesse, sfregava invece il cazzo contro il cotone. In un altro momento sarebbe stato felicissimo di portare avanti quella situazione fino ai limiti, farsi ridurre a una massa tremante e lacrimosa di piacere possibile ma non raggiungibile. Ma aveva altre priorità. Per esempio, farsi riempire dal cazzo di suo marito. “D-dai Jessie, ti p-prego,” mormorò Scott. Si premette indietro per averne ancora, per averne di più e per costringere Jesse a sbrigarsi. Ancora un po’ e non avrebbe avuto nessuna remora a implorare. Il suono della zip dei pantaloni di Jesse lo fece quasi sbavare nelle lenzuola — Cristo sì, se l’era meritato, era stato bravo, si meritava una ricompensa — e quando finalmente lo sentì premere caldo e duro contro di sé si lasciò sfuggire un miagolio ben poco dignitoso — per quanta dignità potesse avere ancora a culo all’aria e alla mercè del suo splendido marito. “Dai Jessie,” disse Scott dalle profondità delle lenzuola. “Devo mandare una partecipazione di nozze pure al tuo cazzo?” L’altro rise, profondo e divertito e si chinò su di lui, stringendogli la vita sottile con un braccio e aiutandosi con l’altra mano per iniziare finalmente a penetrarlo. La sensazione era, come sempre, paradisiaca. Perché ci avesse messo così tanto a dargli culo quando invece era una cosa così pazzesca era oltre i limiti della sua comprensione. L’uccello di Jesse era grosso, lo riempiva in modi che nessuno dei giocattoli che avevano nel comodino poteva compensare. All’improvviso Jesse lo tirò su e Scott si ritrovò seduto sulle cosce dell’altro, martellato da dietro e con le agili dita del consorte a stuzzicargli il petto. I piercing decisero che era un ottimo momento per farlo impazzire, mentre Jesse li stringeva e torceva con estrema delicatezza, ma comunque in grado di strappargli sensazioni estreme. “Aspettavo da mesi che guarissero,” gli ansimò all’orecchio, senza smettere un secondo di scoparlo a morte. “Ce l’avevo duro al solo pensiero. Te lo prometto, Scotty, la prossima volta ti farò venire solo con questi stramaledetti piercing.” Il solo pensiero obbligò Scott a stringersi l’erezione, gemendo in risposta. Scenari molto particolareggiati si fecero strada nella sua mente, ma proprio quando stava per venire, Jesse scacciò la sua mano. “Ti prego, io…” iniziò a piagnucolare, ma le mani del marito furono ai bordi del corsetto. Con un’agilità che non gli credeva appartenere, Jesse gli tirò i lembi del tessuto: i ganci si aprirono uno dopo l’altro e tutto l’ossigeno che Scott non sapeva di stare trattenendo gli invase i polmoni insieme a un orgasmo accecante. “Oh cazzo cazzo cazzo…” Jesse ridacchiò, spingendolo di nuovo carponi e lanciando via il corsetto, prima di tirargli su bene il culo e continuare quello che stava facendo. “Breath play, tesoro? Scommetto che non lo sapevi nemmeno.” No, non lo sapeva, non ne aveva alcuna idea, ma il piacere lo aveva avviluppato in una morsa assurda. Rimase comunque lì, culo in aria e il cazzo gocciolante dopo un orgasmo che non aveva richiesto nemmeno una mano. Santo cielo, Jesse. “Ti amo, dolcezza,” gli ansimò suo marito all’orecchio, proprio dietro i riccioli neri dei suoi capelli, ormai bagnati di sudore. “Ti amo tantissimo.” Scott era oltre le parole. Era oltre ogni sensazione e dopo tutta l’attesa e le provocazioni quell’orgasmo fulminante giunto al di fuori di ogni suo controllo stava per spingerlo in un beato torpore. Le ultime spinte di Jesse lo fecero sussultare e piagnucolare. Quando lo sentì venire, tutto intorno a sé e dentro di sé, si lasciò sfuggire un gemito e un lamento. Il suo cazzo aveva valorosamente tentato di rizzarsi di nuovo ma, no, Scott era troppo disfatto. Jesse ebbe per una volta la buona grazia di non crollargli addosso, ma di spingere entrambi di lato in modo che Scott potesse raggomitolarsi contro il suo torace ampio e strusciare la faccia nell’incavo tra collo e spalla. L’uomo gli passò le dita nei riccioli umidi e gli riempì il viso di baci finché Scott non riuscì a socchiudere gli occhi sotto le ciglia nerissime, imperlate di qualche lacrimuccia. Parlare era fuori questione per il momento. Glielo avrebbe detto, un po’ più tardi, gli avrebbe detto e dimostrato di preciso quanto lo amava e quanto era eccitato all’idea di essere suo marito. Marito. Due anni prima, quando era arrivato alla festa di Kayla Sutherland con tutta la spocchia e la noia di un ragazzino viziato e annoiato, certo non aveva pensato che avrebbe trovato un compagno per la vita piuttosto che un semplice sugar daddy. Gli avrebbe detto quanto gli aveva fatto bene il solo averlo incontrato, la loro piccola stupida scommessa e persino i loro litigi e fraintendimenti. Erano cresciuti entrambi e adesso si avviavano insieme lungo una strada piena di felicità e successi. Ma glielo avrebbe detto dopo. Per ora, aveva soltanto le forze di sorridere un po’ tremulo e sporgersi a baciarlo. FINE Suits è un racconto nsfw richiestoci tramite Ko-Fi. I personaggi presenti sono Tom Elliott e Nick Danse, dalla serie di JBI. Contiene scene di sesso esplicito. Per Nuki La festa di gala dell’FBI non era una novità per niente e nessuno. Ogni anno, puntuali come le tasse, i grandi capi montavano su quel teatrino niente meno che nei pressi della sede di Washington DC. Non nell’Hoover Building, ma in una storica sala ricevimenti adibita per l’occasione, con sfarzosi arredi e lucine colorate per convincere i ricconi che ci partecipavano ad aprire i portafogli e donare in beneficenza una valanga di quattrini.
Nick Danse aveva partecipato a uno solo di quegli eventi, molti anni prima, forse troppi, quando aveva ancora entrambe le gambe ed era a capo dell’HRT. Non era roba per lui allora, come non lo era in quel momento. “Allora Nick… vuoi dirmi cosa ne pensi?” Danse sollevò lo sguardo dal cartoncino di elegante carta goffrata, sopra il quale era scritto l’invito — rigorosamente a mano — in una svolazzante calligrafia corsiva. Incrociò gli occhi con Meloni, il capo della sezione FBI di New York, e rimpianse di aver lasciato le sigarette nel cassetto del suo ufficio. “Cosa vuole che le dica,” rispose con una smorfia. “Di no? Non mi sembra che possa rifiutarmi.” Meloni scosse la testa. “Nick, è una bella occasione, no? Significa che c’è maggior interesse verso il lavoro che svolgi. Significa più soldi per il tuo dipartimento. E per l’intera baracca.” Ovviamente aveva ragione. L’FBI non stava certo male, ma soldi in più significavano dispositivi migliori per i suoi ragazzi, uffici decenti e magari sostituire quella stramaledetta macchinetta del caffè che faceva schifo e che si dovevano tenere per mancanza di budget. Il punto, però, non era quello. “Normalmente ti direi di sì.” Danse posò l'invito sulla scrivania di Meloni. “Solo che mi piacerebbe andarci come rappresentante del mio lavoro. Non perché sono un disabile.” Meloni emise un lungo sospiro. Era una lotta ardua quella che stava per iniziare e da un certo punto di vista Nick lo capiva. Incartargli la stronzata in carta dorata oppure parlare dritto al punto, con la possibilità di offendere chiunque non rientrasse nella classifica eteronormativa da lì fino a dieci palazzi di distanza? Nick si sarebbe giocato le palle che il suo capo avrebbe puntato sulla seconda opzione. “Parliamoci chiaro, Danse.” Meloni aprì un cassetto e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Se ne tirò fuori una e poi ne porse un’altra a lui, che gliene fu fin troppo grato. “Sì, ti ho scelto anche per questo, anche se sappiamo tutti benissimo che la tua protesi è stata progettata apposta dalla NASA con i fondi di questa istituzione esattamente per non farti sentire la mancanza della tua vecchia gamba. E rimani comunque più veloce e letale di chiunque qua dentro.” Danse fece un sorrisetto e si accese la sigaretta. “Beh, un sacco di complimenti. Che altro?” Meloni incrociò le braccia al petto e tirò il fumo. “Non mi piace parlare della sessualità dei miei agenti. Non mi piace ficcare il naso.” “John, lo sappiamo tutti che adori farti i cazzi degli altri.” “Sì, ma non in senso letterale. Tu sì. E non solo quelli, da quello che so.” Fece spallucce. “Come dice il detto: in amore e in guerra ogni buco è trincea. Perché stiamo improvvisamente parlando del fatto che mi piacciano sia il cazzo che la fica?” “Beh, è la novità dell’anno, suppongo. L’FBI sostiene l’inclusività dei suoi agenti,” rispose Meloni, con un sorriso. “Un cambiamento che sono stato molto felice di portare con la mia dirigenza. Per cui ho deciso che non solo andrai per dimostrare il tuo lavoro e perché sei disabile, ma anche come quota LGBT della serata. Puoi portarti qualcuno, possibilmente del tuo ufficio.” Il mal di testa stava iniziando a martellargli dietro alle tempie, ma Nick si limitò ad annuire e continuare a fumare. Sapeva che battaglie combattere e mettersi a litigare con quello che gli dava lo stipendio per una cosa del genere non era nel programma della sua giornata. Gliel’avrebbe fatta pagare in futuro e con gli interessi. “Ho già in mente la persona giusta.” “Chi?” “Tom Elliott.” Meloni lo fissò allocchito dall’altra parte della scrivania. “Elliott? Di tutte le persone?” Danse fece spallucce. “Che ha che non va? Si tratta di un agente molto valido, è bello e va benissimo per fare da figurina nel tuo album dell’inclusività. Certo, non gli manca un arto, ma posso rompergli un braccio, se mi paghi abbastanza.” “Sei un coglione, Nick,” borbottò l’altro, spegnendo la sigaretta nel posacenere e prendendone un’altra. “Comunque la mia perplessità rimane. Non è meglio qualcuno di più… discreto sulle proprie prodezze sessuali?” Non si prese nemmeno la briga di smettere di sorridere. “Ti sei già giocato due carte inclusività, John. Non ti darò di certo la carta famiglia americana con lo steccato bianco da aggiungere. Elliott andrà benissimo. Nessuno lo conosce sull’altra costa e ti assicuro che è qualificato per fare qualsiasi cosa.” Meloni fu costretto a cedere, ma non senza una lunga battaglia interiore combattuta tra un tiro e l’altro della sigaretta. Arrivato al filtro la schiacciò pensieroso nel posacenere e ne accese subito un’altra. “Va bene. Hai ragione, Nick. Immagino tu capisca che anche le buone intenzioni hanno necessità di propaganda per ottenere ciò di cui hanno bisogno. A volte questo implica… mettiamola così, rendere il messaggio più appetibile a tutti.” Nick soffiò il fumo e fece un verso sarcastico. “Oh lo so, cosa credi. Mandiamo un disabile che però sa fare le cose meglio di te, te e te. Sì certo, è inspiration porn, ma intanto abbiamo dimostrato di essere inclusivi. E siccome — gasp — è bisessuale, mandiamolo con qualcuno che potremmo vedere bene in uno spot di Folgers, così i benpensanti non si spettinano. Lo capisco, John. Non mi piace, ma capisco.” Meloni annuì piano. “È una partita a scacchi, Nick, non a rubabandiera. Allora,” disse, spingendo ancora l’invito verso di lui. “Tira fuori il tuo completo migliore e portati chi vuoi. Fateci fare bella figura.” Nick spense la sua sigaretta ormai finita e ad ogni buon conto ne rubò un’altra al capo Meloni. Si ficcò l’invito in tasca con malagrazia e tornò in ufficio, ruminando pensieri infastiditi. Non si poteva dire che Nick Danse fosse un attivista, anzi, spesso e volentieri si dimenticava di controllare il proprio livello di privilegio. Anzi, neanche ci pensava, perché era un uomo con una missione e quella missione, prima che gli saltasse in aria una gamba, era far parte della HRT e salvare ostaggi nell’ambito di pericolose operazioni di estrazione e salvataggio. Non stare dietro a una scrivania con settanta monitor e spiare pensionati del Kentucky che trasformavano la cucina in un laboratorio di metanfetamina amatoriale dopo aver visto sessantadue episodi di Breaking Bad. Ma gli rodeva il culo più di ogni altra cosa quando le sue diversità venivano usate come strumenti. Insomma, era facile ricordarsi di determinate cose soltanto quando servivano a qualcuno. Forse da quella scintilla di egoismo sarebbe potuto nascere un maggiore coinvolgimento in tutti i campi della propria vita, ma d’altra parte Nick Danse aveva lasciato ben altro che un arto nell’incidente che l’aveva cambiato per sempre. Tornò in ufficio bofonchiando. Si era appena seduto quando si rese conto che voleva un caffè. Uno sguardo all’ora lo convinse a scendere in caffetteria — tutto pur di evitare il caffè della macchinetta automatica — e nel tragitto verso l’ascensore si fermò davanti al cubicolo di Tom Elliott. Elliott aveva una trentina d’anni e arrivava dalla Omicidi del NYPD. Servire e proteggere gli scorrevano nel sangue da generazioni: suo padre era stato per decenni capo dei vigili del fuoco e sua madre era tuttora tenente del NYPD. Non solo, parlava parecchie lingue ed era un agente addestrato per missioni sotto copertura. Ma era anche una testa di cazzo che detestava le regole se le riteneva sbagliate e faceva di tutto per non rispettarle. Questo avrebbe dovuto far infuriare Danse — che comunque spesso gli faceva delle enormi lavate di capo — ma allo stesso tempo lo divertiva segretamente, perché significava che Elliott non era solo il bravo soldatino, il figlio del sistema, no. Nel bene e nel male era un essere pensante e autonomo. Poi c’era la piccola questione della sua reputazione. Elliott era ben noto in tutto l’edificio e probabilmente anche nel grattacielo dell’IRS accanto a loro in Federal Plaza per le proprie avventure indiscrete di ogni genere, numero e caso. “Elliott, dimmi cosa stai combinando,” disse Danse. Non si era annunciato, quindi la sua voce suonò come uno sparo ed Elliott fece un salto di mezzo metro sulla sedia. “Capo! Ho perso dieci anni di vita! Sto sul caso Johnson, ricordi? Venti chili di diserbante comprati da un becchino.” Danse abbozzò un sorriso millimetrico. “Magari ha il cimitero pieno di erbacce. Andiamo a bere un caffè, ho da parlarti.” Elliott sbatté le palpebre, forse perplesso di fronte al tentativo di battuta da parte di Danse. “Capo, se mi devi staccare la testa a morsi possiamo farlo qua? Mi sto lavorando Jenny della mensa, mi dà delle porzioni extra. Non vorrei perdere terreno, sai.” Danse alzò un sopracciglio. “In piedi, Elliott, e ringrazia che non ti faccio scendere in caffetteria prendendoti a calci in culo. Con la gamba in fibra di carbonio.” Lo vide trattenere a stento l’impulso di roteare gli occhi al soffitto mentre si limitava ad alzarsi dalla sedia. “Non possiamo parlare nel tuo ufficio?” Danse fece spallucce. “Certo, ma preferisco farlo davanti a un caffè caldo decente e una fetta di torta. Dopo di te.” Tom non se lo fece dire due volte. Recuperò la giacca dalla sedia, il cellulare e un attimo dopo gli camminava davanti verso l’ascensore. Lo sguardo di Nick cadde invariabilmente sul culo del suo agente preferito e sogghignò fra sé. Elliott non solo sarebbe stato perfetto per quella storia di merda, ma sarebbe stato anche un gran bel vedere. Danse non era cieco alla bellezza, dopotutto. Gli mancava mezza gamba, non i bulbi oculari, e negare che Elliott fosse un uomo bellissimo sarebbe stato sbagliato. Si fecero tutti i piani dal loro a quello della caffetteria in silenzio, circondati in ascensore da uno stormo di giacche e cravatte che andavano e venivano dai vari dipartimenti. Dieci minuti più tardi erano seduti a un tavolino appartato, con davanti un caffè fumante per entrambi e un dolce per indorare la pillola. “So che ti sembrerà una domanda un po’ strana,” iniziò Nick, senza stare troppo a pensarci. “Ma… ti trovi avverso all’idea di uscire con me una di queste sere?” La forchettina di Tom cadde sul piattino di ceramica e altrettanto fece la sua mascella. “Come, scusa?” “Hai sentito benissimo.” “Oh. Ecco… io…” Il giovane agente deglutì, nervoso, e Nick si prese un paio di istanti per studiarlo meglio. Anche se in quel momento sembrava più un pesce fuori dalla boccia, il divertimento che gli causava vedere quel bel ragazzo agitarsi a causa sua era una inesauribile carica di vita. Infine Tom si riprese con un colpo di tosse. “Ecco… non sono affatto avverso all’idea. E prima che dica qualcosa di molto sconveniente, puoi spiegarmi meglio?” Ah, peccato. Non ci era del tutto cascato. Danse si sistemò meglio contro lo schienale e si ficcò in bocca un pezzo di Red Velvet. “Spero tu abbia uno smoking. Ci facciamo un giretto a spese di Meloni per andare al gala dell’FBI a Washington DC.” “Mi prendi per il culo,” sbottò Elliott, sgranando gli occhi in maniera quasi comica. “Non c’è assolutamente modo che tu possa essere serio.” “Mai stato più serio in vita mia, purtroppo. Ma te lo dico subito, Meloni ci usa come carta inclusività per l’evento. Sono uno storpio a cui piace anche il cazzo e tu… beh. Se le voci sulle tue escapades sono vere, piace il cazzo anche a te.” Tom lo fissava sconvolto. “Davvero vuole usarci come token LGBT e disabile?” “Una combo letale.” Danse gli rivolse un sorrisetto che ebbe il piacevole effetto collaterale di fare tremare un po’ l’altro. “Mi ha chiesto di portare qualcuno di adatto. Tu sei adatto.” “Se mi hai scelto solo per il mio orientamento allora io non credo che…” Nick alzò una mano per fermare la tempesta di indignate e del tutto legittime esternazioni che stava per arrivare. “Ti ho scelto perché sei un bravo agente. Il tuo orientamento è solo un bonus… per me.” “…per te?” Beh, era il momento di mettere le carte in tavola, tanto che aveva da perdere? “Elliott, ti sei scopato chiunque in questo edificio e anche in quello di fianco, tutti tranne me. O mi trovi particolarmente brutto o…” La faccia di Tom assunse una gradevole sfumatura rossastra. Era carino così, Nick sperava tantissimo che non lo trovasse un vecchio orribile e storpio, altrimenti nonostante tutta quella sceneggiata ci avrebbe fatto una figura di merda epocale. “Non ti trovo affatto brutto,” rispose l’altro, tornando finalmente a respirare. “Solo che…” “Solo che?” “Non pensavo potessi essere interessato. A me, dico.” Cielo, come poteva pensare quella roba? Ma si guardava allo specchio? Certo, Tom Elliott aveva una certa reputazione presso il gentil sesso e anche quello meno gentile, ma aveva fascino, era bellissimo e… “Sei anche modesto, vedo.” Tom si strinse nelle spalle. “Forse non ti rendi conto, ma eri già un mito quando io ero a Quantico. Ci sono 30 persone nell’HRT, il tuo nome veniva fatto spesso. Ogni volta che un’operazione veniva portata a termine ci veniva proposta come materia di studio.” Danse ridacchiò. “Avevi il mio poster nella cameretta, Elliott? Sono lusingato.” “Non lo scoprirai mai. Ma il motivo per cui non mi sono mai avvicinato a te non è quello che pensi.” “Sentiamo, allora.” Tom si guardò intorno. “Sicuro che vuoi parlarne qua? Dobbiamo partire insieme, no?” Danse incrociò le grosse braccia al petto. “Sì, ed è meglio che finiamo questa discussione prima di partire. Così qualsiasi cosa succeda non influirà sul lavoro.” Tom spinse via il piatto con il dolce e si pulì la bocca con un fazzolettino di carta. “Non ti ho girato intorno perché sei vecchio o per via della gamba. Ma sei il mio capo e prima ancora di quello sei una persona che ammiro da anni. Meriti più del Protocollo Elliott ‘una botta e via’.” Un angolo della bocca di Danse si arricciò in un sorrisetto storto e un po’ sarcastico. “Addirittura, merito più di una botta e via. Interessante. Bene. Allora prevedo che il nostro viaggio sarà… istruttivo.” Elliott prese ancora più colore in viso, poi squadrò le spalle e rialzò la testa con aria risoluta. “Allora che ne dici, capo, se usciamo stasera?” Danse sollevò anche l’altro angolo della bocca in un sorriso che un tempo era in grado di disintegrare spontaneamente le mutande del destinatario. Evidentemente funzionava ancora — Elliott si morse il labbro e i suoi occhi scuri si fecero più languidi. “Non perdi tempo. Mi piace. Voglio vedere dove mi porti. Vieni a prendermi alle sette.” * Elliott arrivò alle sette in punto. Nick si era fatto una doccia, si era sbarbato di nuovo e si era concesso il lusso di un paio di jeans con una t-shirt e una giacca di pelle. Era una buona giornata, nonostante fosse stato molto tempo in piedi la gamba non gli stava dando troppa noia. Si era limitato a lavarsi bene, asciugarsi meglio e cospargersi di crema protettiva prima di rimettersi la protesi. La odiava con tutto se stesso, così come odiava l’incidente che gli aveva portato via la gamba e il fatto di non essere saltato in aria al 100%. Quella sera però, guardandosi allo specchio con aria critica, decise che poteva permettersi di avere una serata divertente. Non usciva con nessuno da quando aveva perso la gamba, ed Elliott aveva il pregio di essere a conoscenza del suo problema e notoriamente di bocca buona. Forse non se ne sarebbe andato schifato sul più bello. Tom era alla guida di una Ford Bronco e vestito pressappoco come Danse, anche se i suoi jeans erano neri e la sua t-shirt era rossa e si addiceva molto alla sua carnagione. “Ho pensato che a uno come te piacciono i posti dove si mangia sul serio. C’è un locale che fa delle costate da urlo. Bistecche alte così,” disse, facendo cenno con le dita. “E torta di mele della nonna, se resta spazio per il dessert.” Nick alzò un sopracciglio e si arrischiò ad allungare una grossa mano e strizzargli un ginocchio. Elliott ricambiò lo sguardo senza sottrarsi. “Ho un mente un altro dessert.” L’altro sussultò appena e strinse le dita sul volante quasi a volerlo stritolare. “Spero che sia lo stesso che ho in mente io, allora.” Si immisero in strada e Nick si guardò intorno. “Bella macchina. Non ti facevo un tipo da grossi SUV.” “È un bel trattore e mi piace stare comodo,” rispose Tom, con un mezzo sorriso. “I sedili dietro si buttano giù che è una meraviglia.” Il pensiero di Elliott che scopava qualche ragazza nei sedili posteriori riuscì allo stesso tempo a infastidirlo ed eccitarlo. “Non lo metto in dubbio. Ne avevo uno simile, una volta.” Tom annuì, poi girò per svoltare su una strada diretto alla costa. “E poi ti sei comprato quella Mustang rossa da urlo. Ci ho sbavato sopra per mesi quando l’ho vista nel parcheggio. Quando ho scoperto che era tua…” “Non te l’aspettavi?” “Non ti facevo un tipo da Mustang.” Danse sbuffò dal naso, divertito. A quanto pareva non era un tipo per certe cose per davvero un sacco di gente. “Mi piace il fascino selvaggio delle cose.” “Oh, lo vedo,” mormorò l’altro agente, gettandogli un’occhiata in tralice. Parcheggiarono fuori da un locale dall’aria ordinaria, sembrava un vecchio diner anni ‘50 che aveva visto tempi migliori. Ma Nick sapeva quando era meglio non giudicare un libro dalla copertina — la gente tendeva a fare lo stesso con lui — e seguì Tom all’interno, pronto per quello che la cucina aveva in serbo per loro. Eccellenza, ecco cosa aveva in serbo. “Potrei senza ombra di dubbio dire che è la bistecca migliore che abbia mai mangiato,” disse Nick, dopo che ebbero cenato in santa pace, come due persone normali e non come un capo e il suo sottoposto. “Mi piacciono i tuoi gusti in fatto di cucina, Tom.” L’altro sorrise, riguadagnando un po’ di baldanza con la pancia piena. Mise i gomiti sul tavolo e si sporse verso di lui, schioccando la lingua. “Ho gusti semplici, capo. Ma efficaci.” “Bene, allora iniziamo con il non chiamarmi capo mentre sappiamo benissimo che siamo qui per entrarci nei pantaloni a vicenda.” Tom sussultò per un attimo, preso in contropiede, ma si riprese abbastanza in fretta. Un largo sorriso sornione si dipinse sul suo volto. “Ma a me piace chiamarti capo. E non sto cercando di entrarti nelle mutande. Non ancora.” Danse ricambiò il sorriso. Conosceva molto bene quel gioco, sapeva come condurlo. “Ah, avrei pensato il contrario. Quindi vuoi mandarmi a casa senza dessert?” Tom si mordicchiò il labbro. Non c’era nulla di imbarazzato in quel gesto. Era perfettamente calcolato e ben diverso dall’imbarazzo genuino di quando avevano parlato in mensa. “Non è quello che ho detto. Ho detto solo che non sto cercando di entrarti nelle mutande. Non ancora.” “Mh,” disse Nick, buttando giù il bicchierino della staffa di liquore fatto in casa portato loro dalla padrona del locale. “Ho capito, vuoi giocare un po’ al gatto e al topo, eh? Ricordati che so benissimo come vincere un assedio, Elliott.” “Oh, lo so, ma non abbiamo mica stabilito chi sia il gatto e chi il topo,” ribatté l’altro, malizioso. “E il mio piano questa sera non è di portarti a letto, anche se non credo che faticherei a convincerti. Il mio piano è di lasciarti con la voglia di farlo il prima possibile.” Danse inclinò la testa. Elliott lo incuriosiva e gli piaceva provare quel tipo di curiosità, non si sentiva così interessato a qualcun altro da molto, molto tempo. Se anche fosse stata soltanto una botta e via sarebbe stato già soddisfacente, ma Elliott sembrava aver intenzione di prolungare la cosa al di là di un singolo incontro. Interessante. “E come conti di farlo, sentiamo.” “Beh, per prima cosa ti accompagnerò a casa,” disse Tom. Aveva allungato una mano attraverso il tavolo e stava sfiorando le dita di Danse senza afferrarle o stringerle. Solo un tocco molto lieve, quasi impercettibile. “Ti saluterò e farò per andar via, ma all’ultimo tornerò indietro e ti bacerò.” Danse ridacchiò. “Attento, prendi di sorpresa un agente dell’HRT e ti becchi una gomitata nello stomaco.” Tom fece una smorfia. “Ma non ti prenderò di sorpresa, perché tu te lo starai aspettando e ne approfitterai per mettermi quelle grosse manacce addosso. Al punto che non vorrò più andarmene.” “Se ti metto le mani addosso no che non te ne andrai, Elliott. Fidati.” “Ed è per questo che ce le terrai ben poco. Probabilmente finirò in ginocchio col tuo cazzo in gola,” disse l’impunito, con aria quasi sognante. “E a cose fatte me ne andrò traballando e guiderò come un pazzo fino a casa prima di infilarmi una mano nei pantaloni e menarmelo come se non ci fosse un domani.” “È tutto molto complicato anche solo a livello teorico, non è più semplice una onesta scopata?” Elliott fece cenno di no. “Sì, ma no. Uno, perché qualcosa mi dice che non hai una pistola in tasca, capo, ho bisogno di prepararmi psicologicamente all’idea di conoscere… il braccio della legge. Due, mi piacerebbe che fosse più di una botta e via.” “Continuo a pensare che potresti conoscerlo tranquillamente a casa mia stasera,” insistette Danse, molto deciso e interessato a proseguire in quella direzione, ma Tom si limitò a scoccargli un sorrisetto malizioso. “No. Mi piace l’idea di farlo dopo la tua serata di gala.” Nick sollevò gli occhi al soffitto. “Non è la mia serata.” “Allora fai il bravo e lo diventerà.” * Alla fine Tom si limitò a dargli un pudico bacio sull’angolo della bocca e allontanarsi all’indietro sorridendo, il bastardo. Nick si era però eccitato e quella era una cosa strana. Difficilmente aveva relazioni e di solito quando voleva qualcosa la otteneva. Non era un uomo da sofisticate tecniche di seduzione, ma Elliott… beh, lui sapeva bene le regole di quel gioco e lui si era ritrovato a esserne intrigato. I tre giorni successivi in ufficio furono un’agonia lenta e dolorosa. Tom non voleva saperne di uscire ancora perché deciso ad attuare il suo piano e Nick aveva preso a osservarlo sotto l’ottica di qualcuno che vuoi scoparti a ogni costo. Sì, perché peggio di lavorare con Tom, c’era solo vederlo flirtare a ruota e cazzo, era bravo il bastardo. Il giorno prima della partenza Nick era riuscito a spingerlo dentro uno dei cessi del loro piano, chiudersi la porta alle spalle e baciarlo fino a levargli il fiato… e poi l’aveva lasciato lì, ansimante e con la bocca rossa e aperta. * “Due stanze?” commentò Elliott, mentre si avviavano verso l’ascensore che li avrebbe portati ai piani superiori del loro albergo a DC. “Ne bastava una.” Nick scosse la testa e sogghignò. Era d’accordo con lui, ma quel gioco al gatto e al topo stava diventando interessante. “Pensa piuttosto a prepararti per dopo.” L’altro agente entrò nell’ascensore e premette il pulsante. “Sono il re dello smoking, capo.” Si rivelò davvero esserlo. Quasi gli caddero gli occhi dalle orbite quando se lo ritrovò nella hall dell’albergo, con uno smoking elegante che lo fasciava alla perfezione ed enfatizzava le spalle larghe e la vita stretta. Aveva i capelli neri e lucidi ben pettinati con una riga laterale e la perenne barba di un paio di giorni che gli dava quella faccia da sexy bastardo impenitente che faceva girare la testa a tutti. E anche a lui, apparentemente. Tom Elliott era splendido e se non fosse riuscito a portarselo a letto quella sera, Nick si sarebbe percosso da solo con la propria gamba sintetica. Quando i loro sguardi si incrociarono, però, la bocca di Elliott si spalancò per la sorpresa e un vago rossore gli dipinse le guance. Nick gli rivolse uno dei suoi microscopici sorrisi malefici e vide l’altro quasi barcollare. Sapeva che valeva la pena spendere quei soldi per un completo su misura, dannazione. “Sei… wow,” disse molto poco intelligentemente Tom, deglutendo a vuoto. “Ti sta davvero bene.” “Anche tu non sei male.” Gli si avvicinò per sussurrargli all’orecchio, ghignando come lo stronzo che sapeva di essere. “Ma scommetto che senza sei meglio.” Tom ammiccò. “Chi lo sa, forse avrai il privilegio di scoprirlo,” disse, sornione. La cerimonia fu uguale a mille altre a cui aveva partecipato e neanche l’idea di essere lì come contentino alle minoranze riuscì a distrarre Danse dalla vista di Elliott in smoking. Alto e con un fisico perfetto, l’agente aveva un sorriso bianco affascinante e riusciva a stregare tutti con lo sguardo dei suoi languidi occhi scuri. Era anche un cretino indisciplinato sul lavoro, ma a vederlo in azione così Nick ricordava molto bene perché lo considerasse uno dei suoi migliori agenti. Le sue infrazioni erano sempre poca cosa in confronto al suo savoir faire sul campo. Lo vide chiacchierare amabilmente con un gruppo di anziane benefattrici tutte ingioiellate. Le signore avevano chiaramente superato il millennio abbondante ma erano emozionate come ragazzine, tutte piccole risate trillanti e gesti vezzosi. Tempo di recuperare due flute di champagne e Danse lo ritrovò a parlare con un gruppo di giovanissimi cadetti di Quantico. Erano poco più che maggiorenni, con facce pulite e terribilmente serie. Qualcuno era nervoso, altri sfoggiavano una sfrontatezza che sarebbe andata in pezzi alla vista del primo sangue. Erano gli agenti del futuro e l’atteggiamento di Elliott nei loro confronti era completamente diverso rispetto a quello tenuto con le signore di prima. La sua postura era rilassata ma inequivocabilmente dominante. Parlava loro con tono amichevole ma anche da lontano Nick riusciva a vedere come quei ragazzi e ragazze fossero affascinati dalla sua competenza. Lo raggiunse prima che potesse essere catturato da un altro gruppo e gli porse un flute di champagne. “Sai come lavorarti un pubblico, eh?” Elliott ammiccò mentre si bagnava le labbra con le bollicine. “Tutta quella fama di cui HR si lamenta sempre servirà pure a qualcosa. Anche se adesso non faccio altro che spiare la gente, ho passato un sacco di tempo sotto copertura, sai. Ho fatto tanti di quegli addestramenti di social engineering che è anche divertente mettere di nuovo in atto qualche trucchetto.” Nick gli si avvicinò abbastanza da fargli sentire il proprio calore corporeo ed entrare nel suo spazio personale. Era fin troppo vicino per un’occasione pubblica, ma la sala era gremita e un cameriere carico di minuscoli canapè passò dietro di lui proprio in quel momento, dandogli l’occasione per fare un passo avanti. “Interessante, Elliott. Chissà cosa nascondi sotto tutti questi strani e quella tua facciata di simpatico menefreghismo, eh?” Elliott alzò un sopracciglio ma non arretrò. “Lo scoprirai. Con la dovuta pazienza. Guarda, la vedova Connelly ti cerca. Suo marito era alla Nasa, hanno lavorato alla tua gamba di riserva. Fammi vedere cosa sai fare col tuo fascino. E ricordati,” ammiccò lo stronzetto, “che ti terrò d’occhio.” “Oh, anche io,” rispose Nick, troppo vicino al suo orecchio per essere casuale. Lasciò che le labbra sfiorassero il lobo di Tom e si godette il piccolo brivido che lo percorse. “Oppure, puoi evitarmi i convenevoli con questa vedova e venire con me.” “Con te dove?” deglutì l’altro. Danse gli posò una mano sulla parte bassa della schiena, appena sopra il culo tondo e perfetto. Lo spinse con delicatezza, veleggiando tranquillo tra i vari invitati della festa, che li guardavano come attirati dalla loro presenza. Un minuscolo senso di orgoglio percorse Nick. Con la gamba coperta e con una bellezza come Tom Elliott al fianco, riuscì a sentirsi se non bello, almeno affascinante. Sapeva benissimo che effetto facevano insieme, lui grande e grosso di fianco a un agente snello e agile che sembrava uscito dalla copertina di qualche rivista. Meloni avrebbe dovuto dare un aumento a entrambi solo per la bella figura che stavano facendo fare alla loro sezione. Ma Nick non aveva più voglia di fare la bella statuina da un bel pezzo. Spinse Tom fuori dal salone principale, in direzione di un bagno ben lontano da quello vicino all’ingresso. Non c’era nessuno quando entrarono, era deserto e pulito, l’ideale per quello che aveva in mente. Non si fece remore a spingere l’altro contro la porta e chiuderla con la chiave inserita nella toppa. Dentro di sé scosse la testa. Quale idiota lasciava la chiave del bagno principale disponibile al pubblico? Poco importava. “Vuoi davvero scoparmi la prima volta in un cesso di una sala conferenze?” lo prese in giro Tom, prima di afferrarlo per la cravatta e tirarlo a sé, in un cozzare di bocche e lingue fameliche. “Nota a margine: non mi sto lamentando,” aggiunse, dopo essersi staccato per respirare. Nick ringhiò quasi, strinse le mani intorno alla vita di Tom e gli piantò un ginocchio in mezzo alle gambe, lasciando che l’agente strusciasse il suo cazzo ancora rinchiuso nel completo contro la sua coscia. “Tecnicamente non siamo dentro il cesso, ma appena fuori. Però sono stufo di dover tenere le mani per me.” Tom si limitò a mugolare quando Nick gli strappò un altro bacio e prese a slacciargli in fretta i bottoni dei pantaloni. “Oh cazzo…” “Ti piace?” “Cazzo sì,” ansimò Elliott. “Meno male che sono venuto preparato.” Spinse indietro Danse quel tanto da avere spazio per infilare le dita nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori un preservativo e una bustina di lubrificante. A Nick venne voglia di ridere. “Ci speravi?” “Diciamo che non mi aspettavo di riuscire a tornare in albergo. Sei dannatamente sexy vestito elegante, capo.” Nick gli morse la bocca, gli afferrò la mascella per forzare il bacio nella direzione da lui preferita e continuò a divorarlo. Elliott aveva tutta la ragione del mondo e avrebbe dovuto saperlo anche lui: non sarebbero mai arrivati in camera. A giudicare dal modo in cui Elliott gli si premeva contro, Nick non aveva niente da preoccuparsi: sarebbe stato solo il primo di molti round, appena sufficiente a smorzare il desiderio per farli uscire dal galà senza farsi beccare. “Muoviti,” mugolò Elliott. “Non avremo tutto il tempo del mondo.” Nick ridacchiò. “Guarda che non sono un peso piuma. Ci vuole un po’ di incoscienza ad affrontarmi senza preparazione.” Non era un’esagerazione. D’altra parte Nick Danse era un gigante e Madre Natura l’aveva benedetto con membra proporzionate. Tutte le membra. Tom gli schiaffò in mano il condom e gli riservò un’occhiataccia. “Spero ti stia. Ora muoviti, capo, ho programmi per questa notte.” Nick si permise una risata di cuore. Con una manata fece voltare Elliott e lo spinse contro la parete, aprendogli le gambe con un ginocchio. “Il mio miglior agente con le braghe calate in un cesso di lusso, dico io.” Elliott lo fissò da sopra la spalla, poi si spinse contro di lui, strusciando quel culo sodo e perfetto contro il suo cazzo speranzoso. Cristo, era divertente provocare e farlo aspettare, ma c’era un momento per parlare e uno per passare all’azione. Si aprì la zip con un sospiro di sollievo, anche se la pressione dei boxer aderenti era comunque troppa, e con pochi gesti si infilò il condom. Preparare Elliott era un’altra faccenda. “Aiutami,” gli ringhiò da sopra la spalla. Entrambi presero un po’ di lubrificante e di lì a poco il culo perfetto dell’agente venne aggredito dalle dita di entrambi, mentre Elliot mormorava imprecazioni e cercava di premersi contro quell’intrusione. “Giuro che basta, capo, se non me lo dai giuro che-” “- non accetto questa motivazione per non presentarti al lavoro domani, Elliott. Se ti rompo il culo dovrai venire lo stesso a lavorare.” “Tu pensa a farmi venire adesso, poi mi puoi regalare una ciambella gonfiabile.” Nick ridacchiò ancora e finalmente sfilò le dita. Cinse la vita di Elliott con un braccio e con l’altra mano iniziò a guidarsi dentro il calore incredibile dell’altro. Nonostante il lubrificante era assai stretto e lo sentì tendersi e irrigidirsi intorno a sé. “Oh cazzo,” ansimò Tom, con un guaito. “Oh cazzo cazzo cazzo…” Nick si obbligò a non sbatterglielo dentro tutto di colpo come il suo istinto gli suggeriva di fare e invece strinse i denti. “Te lo avevo detto.” La sua attenzione fu distolta dalla fila di marmo dei lavandini lungo la parete di fianco a loro. Forse, se avesse invitato Tom a poggiare i gomiti lì avrebbero avuto una posizione più agevole. Senza pensarci troppo si ritirò da lui e lo manovrò sul lavandino, facendogli tirare su il culo. E, nota di diletto personale, davanti a loro c’era pure un enorme specchio. Tom gemette ancora quando Danse gli si spinse dentro di nuovo, con un po’ più di facilità e, un centimetro alla volta, riuscì a entrare in quel corpo meraviglioso. “Stai bene?” gli chiese Nick, osservando la faccia stravolta del suo agente preferito nello specchio. “Troppo?” Il volto di Tom si trasformò in una smorfia. “Prova a toglierti e te la faccio vedere io.” Con una risatina, Nick decise che stava bene, tutto sommato. Iniziò a scoparlo, lentamente, osservando ogni minuscolo cambio di espressione sul volto dell’altro. Certo, non era facile, lo sapeva bene. Ma bastava trovare il punto giusto e… “Cristo!” Tom cercò in ogni modo di aggrapparsi al marmo lucido che non offriva molti appigli alle sue dita, ma da quanto poteva vedere nello specchio, la sua bocca era spalancata per lo stupore e il resto della sua espressione era puro godimento. “Cazzo, dammene ancora.” E chi era lui per dire di no? Da quel momento in poi, Tom rispose alle sue spinte spingendo il culo all’indietro, aprendosi ancora di più, accogliendolo con tutto l’entusiasmo e il fiume di parole sporche che si aspettava di vedere dalla prima volta che aveva fantasticato di scoparselo in ufficio. Gli artigliò i fianchi con le grosse mani, sperando non troppo segretamente che il giorno dopo gli sarebbero rimasti i segni in ricordo di quello che avevano fatto. “Lo prendi così bene,” gli mormorò all’orecchio, chinandosi su di lui. Gli infilò le dita tra i capelli e gli tirò la testa all’indietro, per obbligarlo a guardarsi insieme nello specchio. “Sei proprio come avevo immaginato.” Tom sorrise e ridacchiò pure, il bastardo. Socchiuse gli occhi e lo inchiodò con lo sguardo nello specchio. “Oh, lo so.” “Modesto anche,” ringhiò Danse. Gli assestò una pacca sul culo con la mano libera e continuò a spingersi nel suo calore quasi insopportabile. Era stretto e caldo e la leggendaria stamina di Danse — che era rimasta ragguardevole anche dopo aver perso la gamba, se gli riusciva di entrare nell’umore — rischiava di cedere non per stanchezza ma perché quell’infame del suo agente preferito continuava a spingersi indietro contro di lui e mormorava cose incomprensibili con la faccia schiacciata contro la ceramica. Non fece neanche in tempo a toccarlo. Bastò un altro schiaffone e un’ultima spinta e Tom si irrigidì contro di lui, con un gemito mezzo bloccato in gola. Meno male, o Nick avrebbe dovuto chiudergli la bocca e sperare che nessuno sentisse. Gli strinse un braccio intorno alla vita e si piegò su di lui, spingendosi dentro con disperazione, aizzato dai piccoli lamenti di Tom sotto di lui. Cristo, quanto tempo era che non scopava in piedi? Per fortuna la sua gamba decise di non cedere sul più bello, mentre cercava di non dissolversi nel piacere accecante del corpo di Tom. “Oh, cazzo,” balbettò Tom, senza fiato. Nick non alzò neanche lo sguardo. Era ancora infilato dentro di lui, ancora in preda agli ultimi spasmi dell’orgasmo e se avesse guardato la sua faccia sconvolta sarebbe esploso nel tentativo di rizzarlo di nuovo e dargliene un’altra dose. Ma, ahimé, non aveva più vent’anni. Niente male per un agente veterano con una gamba sola, però, pensò con una scintilla della sua vecchia baldanza. “Tirati su, Elliott,” disse dopo qualche minuto. Per gradire gli tirò un colpo all’altra natica, godendosi il suo sobbalzo. “La fai facile,” borbottò Elliott. “Non sei tu quello col culo trapanato fino al centro della terra.” Danse ridacchiò e l’aiutò a tirarsi su. Si godette persino un lungo bacio affamato e disordinato. Non c’era modo di tornare alla festa senza farsi sgamare o almeno senza far alzare più di un sopracciglio perplesso. “Riesci ancora a venire senza una mano alla tua età?” gli chiese, cercando disperatamente di dare una sistemata ai propri abiti. “Sono impressionato.” In tutta risposta, Tom si sollevò i calzoni con una piccola smorfia che però non faceva nulla per nascondere il suo sorrisetto. Si sistemò la camicia, ormai un coacervo di pieghe e sudore, e gli strizzò l’occhio. “Capo, non sottovalutare mai la mia libido. Lo desideravo da così tanto che probabilmente sarei venuto anche solo a guardarti nella sala di prima.” Il complimento scaldò il cuore di Nick — e anche qualcos’altro — perché Tom era così sincero e cristallino nel suo desiderio da renderlo quasi irreale. Era una sensazione gradevole, confortante e… beh, terribilmente eccitante. Tirò Tom a sé per un ultimo, straziante bacio e gli mordicchiò la mascella. “Porta il culo in macchina, Agente Elliott. Sarà un vero piacere per me levarti questi begli abiti eleganti una volta a casa.” FINE |
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December 2023
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